Di Davide Panza, cmo e cofondatore di Digital MDE
Il mercato del digital audio sta crescendo sotto ogni punto di vista. Dall’anno scorso sono aumentati tutti gli indici di fruizione e creazione di podcast, audiolibri e musica. E sono cresciuti anche i valori legati ai flussi di investimenti. Quest’ultimo punto è indispensabile per alimentare gli attori della filiera, almeno quelli che hanno nel loro modello di business un piano di sostenibilità di medio periodo (sul lungo periodo non mi esprimo vista la giovane età del settore, così come tralascio quelli del gioco «compro un microfono e faccio un podcast»).
Il digital audio advertising rappresenta lo strumento potenzialmente più importante di questa alimentazione, potendo contare su budget identificabili nella loro origine (la pubblicità appunto), meccanismi di compravendita molto simili a quelli di altri comparti del digital e tecnologie specifiche collaudate e presenti sul mercato. Il bimbo è ancora piccolo in valori assoluti, come riportano i dati dell’Osservatorio Internet Media del Politecnico di Milano, ma – stando alle proiezioni di IAB Europe – scalcia vigorosamente.
In pratica abbiamo in Italia un mercato che, alla fine del 2021, valeva circa 19 milioni di euro. E che è visto come quello che avrà la maggior crescita percentuale (34,2% contro il 26,2% del video).
Vado al punto. Nel digital audio advertising le componenti sono due: la musica e i podcast. La prima assorbe la gran parte di quegli investimenti grazie a player come Spotify e RadioMediaset che dettano le regole di compravendita, fissando i parametri sul mercato – parametri quale il CPM (Costo per Mille impression, per i non addetti ai lavori). Al podcast, neoarrivato nel digital audio, non rimane che accodarsi e iniziare per adesso a prendere le briciole di questi piani media. Tutto ciò alle condizioni che i player del digital audio hanno già stabilito, quindi al “loro” CPM.
Ma uno spot nella musica ha la stessa valenza di un mid-roll in un podcast? La ricettività di un promo è la stessa per un utente che schiaccia “play” per un po’ di svago e compagnia di sottofondo rispetto a quella di uno che schiaccia “play” perché sceglie di ascoltare quello specifico contenuto? Per me, *brand che vendo scarpe da jogging*, ha più valore un utente più o meno targettizzato sui miei parametri che ascolta musica o uno che sceglie di mettersi le cuffie e ascoltare un contenuto che parla di jogging?
Mi fermo qui con un appello rivolto soprattutto a chi acquista pubblicità: così come esistono banner diversi, annunci in vari formati, video erogati in modalità eterogenee, non fate nell’audio “di tutta l’erba un fascio”. Il rischio è di sminuire sul nascere il valore complessivo che questo formato può portare a tutta la filiera, a partire dagli inserzionisti.
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