La scarcerazione di Adnan Syed e l’impatto di “Serial”

Il protagonista del podcast di Sarah Koenig dopo 22 anni e mezzo è fuori dal carcere (per ora). Ma secondo alcuni la serie audio del 2014 ha fatto più male che bene alla sua causa

Quando lunedì 19 settembre Adnan Syed, 41 anni, ha lasciato il tribunale di Baltimora, in Maryland, lo ha accolto una folla in festa. Ovazioni, lacrime, clacson strombazzanti. Tutte le telecamere e gli smartphone erano puntati su di lui.
Camicia bianca e cravatta blu, la barba scura con qualche pelo bianco, in testa il tradizionale zucchetto musulmano, sottobraccio un raccoglitore con l’immagine di Jack the Bulldog (la mascotte della Georgetwon University – Syed ha preso parte a un programma dell’università per studenti incarcerati). Il sorriso timido, gioioso. Gli occhi bassi, l’espressione a tratti incredula e a tratti commossa.

Chissà cosa si prova a sentirsi – quasi – liberi (su quel quasi ci torno tra un po’: ti avviso, è un pezzo lungo e denso di informazioni) dopo oltre 22 anni e mezzo di carcere.

Adnan Syed, 41 anni, all’uscita del tribunale di Baltimora tra Rabia Chaudry (a sinistra) ed Erica Suter (a destra). Chaudry, amica d’infanzia di Syed, è un’avvocata. È stata lei a segnalare la storia di Syed a Sarah Koenig, l’host di “Serial”. Suter, dell’Innocence Project, è l’avvocata di Syed (foto di Reuters)

Se sei appassionat* di podcast, probabilmente sai di chi sto parlando. Il caso di Adnan Syed è al centro dei 12 episodi della prima stagione di Serial, spin-off del programma radiofonico This American Life. La serie audio, opera di un team di giornalisti guidato da Sarah Koenig, rappresenta una pietra miliare nella storia del podcasting. Tra la sua uscita nel 2014 e il 2018 ha ottenuto oltre 340 milioni di download. Ed è stata il primo podcast a vincere un Peabody Award per il giornalismo.

Syed, che non ha mai smesso di dichiararsi innocente, era stato incarcerato nel febbraio 2000, quando aveva 18 anni. Nel processo penale intentato dallo stato del Maryland contro di lui la giuria lo aveva giudicato colpevole di omicidio premeditato, rapimento, rapina e reclusione dell’ex fidanzata, Hae Min Lee, e condannato all’ergastolo più altri trent’anni di carcere.

L’OMICIDIO DI HAE MIN LEE

La ragazza era scomparsa il 13 gennaio 1999. Il suo cadavere era stato ritrovato da un passante in un parco di Baltimora un mese dopo. Era morta strangolata.

Syed e Lee andavano nella stessa scuola superiore, dov’erano piuttosto popolari. Li accomunava anche la passione per lo sport. Lee sognava di diventare un’oculista. Syed, molto studioso, lavorava part-time in un servizio paramedico. Di origine pakistana lui e coreana lei, entrambi erano cresciuti in un contesto conservatore. Temevano che le loro famiglie, con culture profondamente diverse, li avrebbero allontanati. E così le avevano tenute all’oscuro della loro relazione. Finché Lee, stanca della situazione, alla fine del 1998 non aveva deciso di rompere con Syed per poi mettersi con Don Clinedinst, un dipendente di un negozio di occhiali.

Hae Min Lee e Adnan Syed nel 1998 in una foto pubblicata nel documentario HBO The Case Against Adnan Syed (2019)

Secondo l’accusa era stato il desiderio di vendetta a spingere Syed a uccidere la ragazza. Eppure non sono mai state trovate prove materiali contro di lui. Mai. Peraltro, come racconta Sarah Koenig in Serial, la sequenza temporale dell’omicidio ricostruita dall’accusa non regge.

La condanna di Syed, dettata anche da pregiudizi razziali, si è basata soltanto sulle dichiarazioni di un conoscente di Syed stesso, Jay Wilds (Wilds, che successivamente ha cambiato più volte versione, probabilmente fu influenzato dalla polizia), e sulle analisi di alcune celle telefoniche (considerate in un secondo momento inattendibili).

Inoltre l’allora avvocato difensore di Syed, Cristina Gutierrez, non aveva ritenuto opportuno includere una testimonianza importante, quella di Asia McClain, che sosteneva di essere con Syed nella biblioteca della scuola al momento dell’omicidio di Lee (Gutierrez, morta nel 2004, nel 2001 fu radiata dall’albo degli avvocati dopo le lamentele di vari clienti).

Proprio la testimonianza mancata nel 2016 aveva spinto un tribunale del Maryland a ordinare di aprire un nuovo processo. La decisione era stata confermata nel 2018. Nel 2019 la Corte d’Appello aveva però votato contro e la Corte Suprema degli Stati Uniti aveva poi respinto l’appello. Syed aveva già presentato appello nel 2003 e nel 2010, senza successo. Cos’è cambiato adesso?

L’ANNULLAMENTO DELLA CONDANNA

Nell’ottobre 2021 in Maryland è passata una legge che permette a coloro che hanno trascorso almeno vent’anni in carcere per un crimine commesso quando erano minorenni di chiedere al tribunale di ridurre la sentenza. All’epoca dell’omicidio di Hae Min Lee Syed aveva 17 anni. Così la sua avvocata, Erica Suter, ha sottoposto il caso di Syed all’ufficio del pubblico ministero di Baltimora.

La richiesta di Suter è arrivata nelle mani di Becky Feldman, che mentre revisionava le carte ha fatto una scoperta pazzesca: alcune note scritte a mano che facevano riferimento ad altri due sospettati per l’omicidio di Lee. Una scoperta avvenuta per caso, grazie alla diligenza di Feldman.

Mentre la difesa non aveva mai saputo nulla di questi sospettati (che all’epoca minacciarono apertamente Lee: uno oggi è in carcere per violenza sessuale, l’altro ha legami con il luogo in cui scomparve la ragazza), i detective ne erano al corrente ma avevano deciso di non indagare.

Alla luce di questa scoperta, mercoledì 14 settembre i pubblici ministeri hanno chiesto alla giudice Melissa Phinn di annullare la condanna di Syed. Meno di una settimana dopo Phinn ha accolto la richiesta e ha dato all’accusa trenta giorni, fino al 18 ottobre, per decidere se istruire un nuovo processo o abbandonare il caso. Molto dipenderà dai risultati di un test del dna. Nel frattempo Syed è agli arresti domiciliari con una cavigliera elettronica (ecco perché il quasi libero).

La decisione della giudice Melissa Phinn di annullare la sentenza di condanna di Syed non implica necessariamente che Syed sia innocente. Rappresenta invece la presa di coscienza di tutte le storture del sistema giudiziario. «Persino in un giorno in cui il governo riconosce i propri errori, è difficile rallegrarsi per un trionfo della giustizia. Perché abbiamo costruito un sistema che ci mette oltre vent’anni per auto correggersi. E non soltanto per questo caso», ha commentato in un episodio extra di Serial Sarah Koening, che lunedì 19 settembre era nel tribunale di Baltimora.

In tribunale non c’era invece la famiglia della vittima. Il fratello di Hea Min Lee, Young Lee, si è però collegato via Zoom. E ha pronunciato una frase che mi ha colpito. «Questo non è un podcast per me», ha detto Young Lee tra le lacrime, prima che la giudice si pronunciasse. «È vita vera. Un incubo senza fine, da oltre vent’anni».

La madre di Hae Min Lee, Youn Kim, nel marzo 1999 dopo il funerale della figlia, a Baltimora

Mi ha colpito innanzitutto perché mi ha fatto pensare al dolore delle vittime, che tende a passare in secondo piano quando il crimine diventa un caso mediatico. Le persone vengono spesso trasformate in personaggi (personaggi talvolta romanticizzati), l’ossessione e la fascinazione per i risvolti più sorprendenti o inquietanti portano a dimenticare che dietro ci sono padri, sorelle, amici che soffrono. (Se il tema t’interessa ti consiglio questo pezzo).

La frase di Young Lee («Questo non è un podcast per me») fa riflettere anche sull’impatto di Serial su tutta la vicenda.

L’IMPATTO DI SERIAL

Questa non è la prima volta che un podcast true crime (e un contenuto true crime in generale) ha come conseguenza più o meno diretta la riapertura di un caso e una sua nuova soluzione. Quasi il 60% dei partecipanti a una recente indagine condotta negli Usa ritiene che i contenuti true crime abbiano proprio questo effetto: aiutare a risolvere crimini che altrimenti non verrebbero risolti.

A fine agosto Chris Dawson, al centro del podcast australiano The Teacher’s Pet, è stato giudicato colpevole dell’omicidio di sua moglie, scomparsa nel 1982.
Nel 2019 la Corte Suprema statunitense ha annullato la condanna a morte di Curtis Flowers, un uomo afroamericano processato sei volte per l’omicidio di quattro lavoratori di un negozio di arredamento del Mississippi nel 1962, poiché l’accusa aveva escluso giurati neri – la storia di Flowers è raccontata nel podcast In the Dark.
E due podcast di Las Vegas hanno da poco unito le forze per scoprire chi ha ucciso il rapper Tupac Shakur (assassinato nel 1996), con la promessa di dare 100 mila dollari a chiunque fornirà informazioni utili.

(Qui trovi altri podcast che hanno cambiato la vita dei loro protagonisti.)

Tornando a Serial, qual é stato l’impatto concreto sui nuovi risvolti dell’omicidio di Hae Min Lee?

Non c’è dubbio che questo caso specifico abbia ricevuto così tanta attenzione – e l’abbia mantenuta così a lungo – proprio grazie al podcast.

Dopo l’uscita di Serial l’Innocence Project (ong che lavora per tirare fuori dal carcere persone condannate ingiustamente) ha avviato una propria indagine sul caso di Syed. L’avvocata che lo rappresenta attualmente, Erica Suter, fa parte proprio dell’Innocence Project.
Inoltre diverse persone hanno iniziato a indagare sulla faccenda e a scambiarsi pareri su forum online.

Da Serial nel 2019 è scaturito anche un documentario HBO, intitolato The Case Against Adnan Syed, il quale ha rivelato che non erano state trovate tracce del dna di Syed né sul corpo di Lee né sulla sua auto.

Ci sono però alcuni aspetti controversi, sollevati soprattutto da Rabia Chaudry, avvocata e amica d’infanzia di Syed.

GLI ASPETTI CONTROVERSI

Chaudry ha sempre lottato per dimostrare l’innocenza di Syed: era al suo fianco quando ha lasciato il tribunale di Baltimora il 19 settembre da uomo quasi libero. Ed è la persona che ha segnalato il caso a Sarah Koenig.

Nel 2015 Chaudry e due colleghi hanno lanciato un altro podcast sul caso di Syed, Undisclosed, «non una storia ben scritta come Serial, ma un’indagine dei numerosi punti oscuri del caso». Nel 2016 Chaudry ha anche pubblicato un libro sulla vicenda, Adnan’s Story: The Search for Truth and Justice After Serial.

In un episodio di Undisclosed Chaudry dice: «Quello che Sarah [Koenig] ha fatto molto bene è stato mantenere un livello di ambiguità che ha tenuto le persone appese. Del tipo: “Lo ha fatto o non lo ha fatto?”. […] Io però sono così vicina al caso che per me non era intrattenimento, per me era impossibile gustarmi Serial. Serial mi stressava a morte, e stressava anche Adnan e le persone a lui vicine. […] Undisclosed è per le persone che prendono questo caso sul serio».

Diversi ascoltatori di Serial si sono fatti l’idea che Adnan Syed sia colpevole, che abbia davvero ucciso Lee. E questo ha fatto arrabbiare molto Chaudry.

Koenig nel podcast non prende mai del tutto posizione, lascia sempre spazio al dubbio – all’ambiguità, come dice Chaudry. D’altra parte secondo alcuni – tra cui Eric Nuzum – il lavoro dei giornalisti che hanno lavorato a Serial «non è quello di farsi sostenitori della scarcerazione di Syed […] o di costruire un caso» (non sono d’accordo: lo scopo dei giornalisti è anche quello di indagare per costruire un caso).

Ci sono di sicuro alcuni punti problematici in Serial. Innanzitutto, il fatto che i vari episodi siano stati pubblicati in itinere, in tempo reale, mano a mano che Koenig raccoglieva i vari elementi. Un’altra questione riguarda l’assenza del punto di vista della famiglia di Hae Min Lee. Senza contare gli errori fattuali, le informazioni mancanti, le affermazioni fuorvianti. C’è chi sostiene che Koenig abbia trascurato elementi importanti della storia che riguardano il pregiudizio razziale, l’islamofobia, la giustizia sociale e il fallimento del sistema giudiziario penale (interessante questo pezzo sul white reporter privilege).

Serial Productions, la casa di produzione nata nel 2017 a partire dalla squadra di Serial, nel 2020 è stata comprata dal New York Times.
Anche una delle ultime produzioni di Serial Productions, The Trojan Horse Affair, presenta alcuni errori – indotti soprattutto dalla «tentazione di selezionare coscientemente determinati fatti per costruire una storia appassionante».
Nel dicembre 2020 è emerso che Caliphate, un’altra serie audio del New York Times (prodotta prima dell’acquisizione di Serial Productions), era stata costruita sulla base della testimonianza di una persona che non era chi diceva di essere.

Più volte ho avuto la sensazione che, in generale, gli standard di fact-checking dei contenuti audio siano inferiori rispetto a quelli di contenuti testuali o video. Forse anche perché al momento l’analisi dei contenuti audio è difficilmente automatizzabile (ulteriore motivo per cui sarebbe utile che tutti i podcast fossero accompagnati da trascrizioni a disposizione del pubblico).

Le colpe o carenze di Serial, in ogni caso, non sono nulla in confronto a quelle del sistema giudiziario. Dopo 23 anni ancora non si sa chi abbia ucciso Hae Min Lin. Eppure i sospettati erano tre. Due però non sono mai stati indagati.

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