La lotta alla disinformazione nei podcast

Tra i vari meme a tema podcast che girano in questo periodo, ce n’è uno che riprende una scena del film Donnie Darko. Nel primo fotogramma il personaggio principale, impersonato da un giovanissimo Jake Gyllenhaal, dice di essersi fatto un nuovo amico. Mentre nel film la sua terapeuta, la dottoressa Thurman, gli chiede se si tratti di un amico reale o immaginario, nel meme la domanda diventa: «Reale o presentatore di podcast?». Con lo sguardo triste, Donnie risponde: «Presentatore di podcast».

Molti appassionati di podcast avranno presente quella sensazione di intimità che a poco a poco si crea con chi narra le serie audio che amiamo. Uno strano processo che, puntata dopo puntata, ci porta a instaurare un rapporto di fiducia con la voce che rimbomba nelle nostre cuffie.

Tuttavia questo aspetto, che rende il medium dei podcast così bello e potente, è anche quello che investe i podcaster di un’enorme responsabilità. Pare ovvio, se si ha la fiducia e l’ascolto di molte persone è importante sincerarsi della veridicità di ciò che si condivide e dell’autorevolezza e onestà intellettuale delle persone a cui si dà spazio nelle proprie puntate.

Non mancano però casi in cui questo senso di responsabilità è venuto meno, negli Stati Uniti ma non solo. Tra i più celebri c’è quello di Alex Jones, il cui show Info Wars è stato rimosso da YouTube, Spotify e Apple Podcasts proprio a causa delle pericolose e false teorie del complotto di cui si faceva portavoce. Oppure quello di Steve Bannon, l’ex stratega di Trump ora host del podcast Bannon’s War Room, che ha avuto un ruolo fondamentale nella propagazione della teoria secondo cui le elezioni del 2020 sono state truccate a favore di Joe Biden. E soprattutto quello di Joe Rogan, il cui seguitissimo podcast The Joe Rogan Experience, in esclusiva su Spotify, è stato più volte accusato di diffondere fake news sul Covid-19, retorica anti-trans e messaggi vicini all’estrema destra (ne avevamo parlato qui un anno fa).

Uno studio sull’incidenza della disinformazione nei podcast

Un nuovo studio della Brookings Institution si è preso l’ingrato compito di andare oltre all’aneddotica e studiare il fenomeno della disinformazione nel mondo dei podcast nel modo più completo e sistematico che si sia visto finora. 

Vari ricercatori, sotto la guida della data analyst Valerie Wirtschafter, hanno utilizzato sistemi di natural language processing (NLP) e intelligenza artificiale per trascrivere e individuare quante informazioni false fossero presenti all’interno di 36.603 episodi presi da 79 podcast diversi. Questo campione smisurato era stato selezionato tra i podcast più ascoltati in due periodi diversi, a metà novembre 2020 e a metà aprile 2021. 

Lo studio rivela che, tra tutti i podcast esaminati, circa il 70 per cento si è fatto portavoce di almeno una dichiarazione falsa o ingannevole. Inoltre, i podcaster conservatori sono risultati 11 volte più propensi dei podcaster con orientamento “liberal” a condividere dichiarazioni errate o false.

Riguardo al tema Covid-19 in particolare, il grafico sottostante mostra quali siano stati gli argomenti di disinformazione più comuni.

La dottoressa Wirtschafter ha dedicato una parte dello studio anche all’analisi dei motivi per cui i podcast sono particolarmente a rischio disinformazione. Ci sono ragioni intrinseche al formato, come il rapporto di fiducia a cui accennavo prima, che fa “abbassare la guardia” a molti ascoltatori. Ci sono poi motivi legati al metodo di distribuzione dei podcast, i quali – tralasciando i casi ancora minoritari dei podcast disponibili in esclusiva – solitamente vengono pubblicati tramite feed RSS e si possono ascoltare su piattaforme diverse. Questo aspetto, svestendo del ruolo di editore o di moderatore la singola piattaforma, finisce anche per deresponsabilizzarla. A differenza delle piattaforme di social media, il monitoraggio dei contenuti da parte dei distributori di podcast risulta particolarmente complesso anche da un punto di vista tecnico: le puntate dei podcast più famosi negli Stati Uniti, pubblicate più volte a settimana, possono durare anche ore, ma spesso non forniscono una trascrizione di ciò che viene detto, rendendo costosa e troppo lunga qualsiasi analisi dei contenuti audio in tempi brevi. 

Inoltre gli utenti non dispongono di strumenti per segnalare contenuti fattualmente incorretti o pericolosi. Il sistema di recensioni, infatti, si applica solo alle intere serie audio, e non a singoli episodi o porzioni specifiche di essi. Questo aspetto limita le opportunità di monitoraggio “dal basso”, metodo di autogestione che in anni recenti è diventato molto importante su piattaforme quali Facebook e Instagram.

Alla fine dello studio, la dottoressa dà precise indicazioni su che cosa le piattaforme potrebbero fare per muoversi nella giusta direzione, citando ad esempio l’introduzione di linee guida chiare su quali tipi di contenuti possano essere promossi nelle loro classifiche o una riprogettazione delle loro app per renderle più interattive e incoraggiare scambi di vedute. 

Resta ovviamente da vedere se questi suggerimenti verranno accolti dalle piattaforme. Un primo passo potenzialmente incoraggiante è stato fatto da Spotify, che nell’ottobre 2022 ha acquistato la compagnia irlandese Kinzen, specializzata nel monitoraggio di contenuti audio tramite una combinazione di intelligenza artificiale e revisione umana.

Informazione di qualità come antidoto alla disinformazione

Tecnologia e nuove funzionalità delle app di ascolto non sono però le uniche strategie possibili per arginare il fenomeno della disinformazione nei podcast. Negli ultimi due anni abbiamo assistito anche a un altro fenomeno: la nascita di numerosi podcast di qualità che si incaricano di combattere la disinformazione attraverso studi approfonditi e approcci sistematici. Queste serie ripercorrono le origini e gli sviluppi delle principali teorie del complotto e talvolta portano testimonianze di individui le cui vite sono state messe a repentaglio dalle fake news. 

In quanto ai temi di questi podcast, la pandemia e i vaccini per il Covid-19 sono tra i principali. Nella serie Truthers: Tiffany Dover Is Dead* di NBC News, per esempio, la giornalista Brandy Zadrozny ripercorre le tappe della teoria del complotto incentrata sull’infermiera americana Tiffany Dover. Nel dicembre del 2020, la donna ebbe un mancamento davanti alle telecamere dopo che le avevano somministrato la prima dose del vaccino anti-Covid. Benché Dover si fosse rialzata subito e avesse immediatamente rilasciato un’altra intervista, prese piede la teoria per cui la donna, in realtà deceduta, fosse stata sostituita da una sosia.

Will Be Wild, prodotto da Pineapple Street Studio e Wondery, si concentra invece sugli eventi che portarono all’assalto al Campidoglio a Washington del 6 gennaio 2021 da parte dei sostenitori di Trump, aizzati dallo stesso ex presidente e convinti che la vittoria di Joe Biden fosse il risultato di brogli elettorali. I conduttori Andrea Bernstein e Ilya Marritz danno spazio alle testimonianze sia di persone che cercarono di fermare l’attacco sia di alcune che vi presero parte, esplorando via via gli sviluppi autocratici e antidemocratici in corso negli Stati Uniti.

Da noi in Italia, a questa categoria di podcast appartengono sicuramente Complottismi di Radio Raheem («un viaggio tra le teorie del complotto che stanno ridisegnando la nostra epoca»), ma soprattutto Veramente, podcast settimanale di Facta News condotto da Camilla Vagnozzi. Uno degli aspetti più interessanti di Veramente è che si occupa anche di casi di disinformazione “nostrana”, come le credenze sugli effetti benefici del vino, la teoria per cui Mario Draghi sarebbe un rettiliano o il modo in cui si è parlato del ritorno in corsia dei medici e degli infermieri non vaccinati.

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Tuttavia, spiegare l’assurdità di certe teorie a colpi di fatti e dati non è l’unico approccio dei podcast che cercano di combattere la disinformazione. Infatti, quel rapporto di fiducia tra pubblico e presentatori che espone i podcast ai rischi della disinformazione è anche ciò che li rende così adatti a una narrazione empatica e non banale dei fenomeni di cui trattano.

Un esempio calzante è The Coming Storm della BBC, nel quale il giornalista Gabriel Gatehouse parte degli eventi del 6 gennaio 2021 per poi risalire al fenomeno QAnon. In base alla cosiddetta teoria di Q, esisterebbe un deep state globalizzato, organizzato in una rete mondiale composta da celebrità di Hollywood, miliardari e politici democratici dediti alla pedofilia e al satanismo. Secondo i seguaci della teoria, Trump starebbe conducendo una strenua lotta per smascherare queste trame occulte e stabilire un nuovo ordine mondiale. Nella sua recensione del podcast, il Financial Times ha scritto che «laddove altre serie tendono a presentare i seguaci di QAnon come dei pazzi con una tenue presa sulla realtà, Gatehouse è rispettoso e mantiene un tono curioso piuttosto che condiscendente». Pur mettendo bene in chiaro che le affermazioni di QAnon sono «assurde», il giornalista si sforza di analizzare il quadro generale e le circostanze che possono portare una persona ad abbracciare tali convinzioni.

Altra serie BBC che punta sull’empatia per cercare di colmare le distanze e ritrovare un dialogo, stando però attenta a non sfociare nel condono di teorie false o dannose, è Death by conspiracy? di Marianna Spring. Il podcast, in 10 puntate da 15 minuti ciascuna, racconta la storia di Gary Matthews, un 46enne inglese che morì di Covid-19 nel gennaio 2021. Matthews, un uomo molto legato alla sua famiglia, con una buona rete di amicizie e una passione per la fotografia, era stato gradualmente trascinato in una comunità negazionista online e aveva rifiutato di curarsi dopo aver contratto il Covid.

Simile per tematica a Death by conspiracy? ma in una categoria a parte in quanto a profondità emotiva è We Were Three. Si tratta di una serie in tre parti creata da Serial Productions e dal New York Times, in cui la giornalista Nancy Updike sviscera le vicende che hanno portato alla morte per Covid-19 del padre e del fratello della poetessa americana Rachel McKibbens. Il dialogo che si instaura tra Rachel e Nancy parte dai tragici eventi legati al Covid ma poi si espande sempre di più, arrivando a rimettere insieme alcuni importanti tasselli del passato della sua protagonista.

The Rabbit Hole, sempre del New York Times, esplora invece i processi di radicalizzazione su internet partendo della caduta nel vortice dell’ultradestra del giovane americano Caleb Cain. Cain aveva condiviso con Kevin Roose, creator e host del podcast, tutta la cronologia dei video che aveva guardato su YouTube nel corso di quattro anni. Quello che emerge è un lento ma inesorabile lavaggio del cervello a forza di algoritmi, che porta Cain dall’essere un sostenitore di Obama al credere in teorie razziste e complottiste dell’ultra-destra.

Complottismi e “culture wars”

Non è raro che le teorie del complotto si innestino e viaggino lungo le trincee delle cosiddette “guerre culturali”, conflitti ideologici che ormai da anni polarizzano il discorso politico nei Paesi occidentali. 

Things Fell Apart, podcast del documentarista inglese Jon Ronson, si occupa di analizzare l’origine dei principali scontri ideologici di oggi, come quelli sull’aborto, sui diritti delle persone trans o sul cosiddetto “politically correct”. La bravura di Ronson sta soprattutto nel modo estremamente delicato che ha di porre domande scomode ai suoi ospiti, persone che in un modo o nell’altro hanno avuto un ruolo nel creare i conflitti che oggi spaccano in due le nostre società.

In Italia, un podcast che analizza il fenomeno dei complottismi da una prospettiva storica e politico-sociologica è La verità è là fuori dell’Osservatorio sul complottismo. Purtroppo le puntate finora sono poche e sono uscite con cadenza irregolare, ma il calibro degli ospiti intervistati e l’attenzione con cui vengono trattati i vari temi legati alle teorie del complotto lo rendono un ascolto utile e importante.

Ripartire dall’ascolto?

Sembra che la conclusione a cui tanti esperti e divulgatori, in diverse parti del mondo, sono arrivati è che per invertire la tendenza della disinformazione è necessario sforzarsi di capirne le cause. 

Nel mondo dei podcast, studi scientifici come quelli della Brookings Institution sono iniziative necessarie per comprendere, e quindi arginare, il fenomeno. Ma anche i podcast stessi, grazie alle loro caratteristiche intrinseche, hanno dimostrato di essere un mezzo potente per questo scopo. E chissà mai che, oltre a frenare la disinformazione, i podcast non ci aiutino anche a superare le guerre ideologiche contemporanee.

Come? Ricordandoci l’importanza di quello che insegnano a fare meglio: ascoltare.

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